Dichiarazione di voto sulla mozione Benamati ed altri – 14 gennaio 2014

A voi la mia dichiarazione di voto, a nome di Scelta Civica, sulla mozione Benamati ed altri n. 1-00308 concernente iniziative volte alla salvaguardia dell’interesse nazionale in relazione agli assetti proprietari di aziende di rilevanza strategica per l’economia italiana.

 

 

Signor Presidente, onorevoli esponenti del governo, onorevoli colleghi,

c’è un rischio nel presente e nel futuro dell’economia italiana, rappresentato da una possibile “deindustrializzazione” del tessuto imprenditoriale nazionale. Contrastare questa tendenza non può che essere la priorità assoluta dei decisori pubblici, oggi e nei prossimi anni.

L’attuale crisi economica globale non è l’unica causa del declino industriale italiano. Essa ha esasperato i problemi, ma la loro natura è più antica della recessione. Detto in altri termini, le cause dei mali italiani non sono né l’euro, né la globalizzazione. I mali italiani sono tutti di origine “nazionale”. L’alta fiscalità, un welfare e un mercato del lavoro inadeguato, la scarsa liberalizzazione dei servizi, la lentezza del sistema giudiziario, le regole complesse e incerte erano le zavorre del sistema-Paese già prima del 2007-2008. Su tutto questo, come e più di allora, grava il debito pubblico più alto d’Europa: anzi, se alcuni paesi hanno potuto negli anni passati reagire alla crisi con misure di stimolo fiscale più o meno efficaci, l’abnorme stock di debito ha reso impossibile ogni tentativo di manovra espansiva.

Entro nel merito della discussione. Anzitutto, non ci convince la mozione presentata dai colleghi di SEL (Airaudo ed altri), la cui filosofia di fondo – la tutela della italianità e della proprietà pubblica di comparti industriali – stride con la nostra visione della concorrenza e del ruolo del regolatore pubblico come arbitro di un mercato ordinato e aperto. La mozione di Benamanti ed altri che si concentra invece sulla necessità di misure di competitività per l’economia italiana ci appare più rispondenti alle reali esigenze del Paese.

In particolare, non condividiamo il tentativo delle mozioni di SEL e M5S di interrompere le iniziative di alienazione di patrimonio mobiliare pubblico, in un contesto in cui è invece cruciale che lo Stato abbatta significativamente il suo stock di debito. Ci sono anche ragioni di natura industriale a supporto di questa posizione. Meno debito significa minore spesa per interessi e quindi maggiori margini per ridurre la pressione fiscale su imprese e lavoratori, ormai giunta a livelli insostenibili, e per investire in infrastrutture strategiche come la banda larga e le reti dei trasporti. Meno debito pubblico significa anche promuovere il credito alle imprese. L’Italia subisce da qualche anno gli effetti di una stretta creditizia. L’aumento dei differenziali dei tassi di interesse italiani rispetto a quelli tedeschi ha appesantito il costo del denaro per le imprese. Si è verificato un preoccupante “effetto di spiazzamento” nei confronti del credito bancario: con gli istituti finanziari chiamati ad acquistare ingenti quantitativi di titoli di stato, la disponibilità per investimenti nel settore privato si è drammaticamente ridotta.

Ci opponiamo altresì al tentativo di affermare l’equazione “italianità uguale interesse nazionale”. Sia chiaro: anche per noi è opportuno che il governo sia dotato degli strumenti necessari per monitorare le dinamiche e le implicazioni di eventuali passaggi in mani estere di importanti aziende italiane che possiedono reti strategiche. Ci associamo dunque alla richiesta al governo, presente anche nella mozione Benamanti , di procedere il più rapidamente possibile all’approvazione dei regolamenti di cui all’articolo 2 del decreto-legge 21/2012, con il quale il governo Monti ha uniformato la normativa italiana sul “golden power” alla disciplina europea. Tali regolamenti devono però servire a codificare i margini di intervento, favorendo un quadro regolatorio stabile e trasparente, non a rendere onnipotente il decisore pubblico. Il compito di un governo non è quello di discriminare i possibili investitori sulla base della nazionalità, ma quello di offrire le migliori condizioni possibili per attrarre capitali e idee, a beneficio dei consumatori e dei lavoratori.

Non è attraverso il ritorno ad antistoriche e fallimentari politiche interventiste che l’Italia ritroverà il sentiero della crescita, ma in virtù di un ampio programma di riforme volte a rendere il nostro Paese nuovamente attraente per gli investimenti nazionali ed internazionali. Come aumentare la quota misera (appena l’1,6%) di investimenti esteri appannaggio dell’Italia? Occorre contrastare la “sindrome dell’outlet” (per cui attrarre investimenti significherebbe svendere allo straniero per fare cassa) e la “sindrome di Fort Apache” (che spinge a dire “siamo in declino, alziamo muri per chiuderci e difendere così quello che ci resta”). Anche recenti episodi, come la querelle sulla fantomatica Web Tax, mostrano purtroppo la persistenza di un sentimento ostile rispetto alla concorrenza internazionale. Va superato.

Con questa discussione si inaugura un dibattito sul nostro futuro industriale, che approfondiremo con l’esame del “Destinazione Italia”. Ci auguriamo che, in quella sede, il governo sarà più propenso che in passato a recepire le proposte migliorative provenienti dal Parlamento. Il minimo comune denominatore tra le forze della maggioranza non può essere la stabilità fine a se stessa, ma il coraggio delle riforme atte a restituire dinamismo e competitività all’Italia. Questo ha chiesto Scelta Civica fin dal primo minuto al premier Letta, per questo lavoreremo fino all’ultimo minuto.

Un tema cruciale è la riduzione della “bolletta energetica” delle imprese italiane, resa estremamente salata dai “costi di sistema”. Gli incentivi alle rinnovabili, pur diminuiti rispetto al passato, pesano ancora per circa il 18% in bolletta (circa 12 miliardi di euro l’anno). Sono un costo improprio e improduttivo. Ancora, la rimodulazione del sistema di agevolazioni per le imprese a forte consumo di energia, le cosiddette imprese energivore, potrebbe portare a un alleggerimento non indifferente per le bollette dei consumatori industriali, avvantaggiandone la competitività.

Ma si può fare molto di più, anche a partire dal Destinazione Italia, nel quale peraltro si registrano alcune scelte ingiustificate: l’energia che sarà prodotta dalla centrale a carbone nel Sulcis sarà incentivata con costi a carico dei consumatori per 63 milioni di euro l’anno per un intero ventennio. E’ una misura da ripensare completamente, magari destinando le risorse alla riqualificazione professionale dei lavoratori.

Come per l’energia, è fondamentale operare per ridurre in ogni ambito la “inflazione da servizi”, cioè il costo elevato imposto al nostro sistema produttivo dalla incompleta o ridotta liberalizzazione dei trasporti, delle telecomunicazioni, dei servizi professionali. C’è il tema dei sussidi alle imprese, da ridurre significativamente e da trasformare in forme generalizzate di detassazione. C’è la questione infrastrutturale, su cui il Paese sta accumulando ritardo rispetto ai partner continentali, anche in virtù di una cattiva programmazione e gestione delle risorse comunitarie. C’è il dossier della modernizzazione della formazione scolastica e universitaria.

Scelta Civica incalzerà il governo sul mercato del lavoro, in particolare nelle sue implicazioni sugli investimenti esteri. Proponiamo una riduzione dei costi fiscali e contributivi del lavoro, da ottenere anche attraverso una revisione dello strumento della cassa integrazione straordinaria e in deroga. Abbiamo presentato una proposta di Codice semplificato del lavoro, una legislazione del lavoro semplice, facilmente traducibile in inglese, allineata ai migliori standard europei.

Concludo. Non un industriale, ma un sindacalista responsabile come Raffaele Bonanni disse qualche tempo fa: “Senza fabbriche, non ci sono diritti”. E’ un concetto che tutti faremmo bene a tenere a mente, quando la discussione politica annega nella retorica dei “diritti acquisiti”. L’Italia perde capacità produttiva – meno 20% dal 2007 ad oggi – perché non è più un luogo strategico per gli investimenti del mondo. Deve tornare ad esserlo. Il “patto di coalizione” dovrà essere un autentico business plan, per usare un gergo industriale, un canovaccio di azioni concrete e puntualmente identificate in termini di tempistica, costo ed effetti. La mozione Benamanti e altri rappresenta uno spunto utile in tal senso. Annuncio pertanto il voto favorevole di Scelta Civica alla mozione Benamanti e il voto contrario alle altre.