Mozioni sforamento deficit-Pil: Discorso alla Camera del 20 marzo 2014

Giovedì 20 marzo 2014, alla Camera dei Deputati si è discusso delle mozioni Castelli n. 1-00348, Marcon n. 1-00362, Guidesi n. 1-00363, Giorgia Meloni n. 1-00372 e Marchi n. 1-00386, sullo Scostamento dai parametri europei in materia di deficit pubblico.

 

Ecco il mio intervento:

 

 

“Signor Presidente, Onorevoli Colleghi,

Le mozioni presentate dai colleghi delle opposizioni hanno il merito di promuovere in quest’aula un dibattito approfondito sui vincoli di finanza pubblica cui l’Italia, al pari di altri paesi, si è volontariamente sottoposta nell’ambito dell’unione monetaria europea. E’ un fatto positivo quando il Parlamento è investito di una discussione che, troppo spesso, occupa i giornali e le televisioni in termini però semplicistici e a volte demagogici, poco utili per l’opinione pubblica e dannosi per un confronto tra maggioranza e opposizione.

Le quattro mozioni – analizzate nel dettaglio – hanno un’impostazione simile: a fronte di una descrizione articolata dell’impianto complessivo del Patto di stabilità a crescita, i colleghi chiedono al governo uno sforamento del limite della soglia del 3% del rapporto deficit/Pil, come frutto di una decisione unilaterale nazionale o come negoziazione in sede comunitaria. Tra le altre, la mozione del M5S critica l’uso del Pil come indicatore. La mozione di Fratelli d’Italia richiama le tesi di autorevoli economisti secondo cui non c’è alcuna evidenza empirica che assegni a quel “numero” – il 3% – un significato assoluto. Tutti i proponenti criticano l’arbitrarietà del limite del 3% e chiedono un suo sforamento, implicitamente o esplicitamente affermando che solo con politiche di maggior deficit l’Italia può ritrovare la crescita economica e che il vincolo imposto dal Fiscal Compact sta invece inibendo la ripresa. Con le dovute differenze, tutte le mozioni motivano la scelta con la necessità di finanziarie politiche  di investimento in campo infrastrutturale, tecnologico, sociale, ambientale e scolastico, oppure misure selettive di detassazione, allo scopo di riattivare una dinamica virtuosa di crescita economica.

Sgombriamo il campo da un equivoco: chi difende il rispetto del 3% del rapporto deficit/Pil – come certamente noi di Scelta Civica – non è contrario alle diverse misure di rilancio che i colleghi includono nei dispositivi delle mozioni, ad esempio a molte di quelle ben elencate nella mozione di Sel a prima firma Marcon o ad interventi di riduzione delle imposte. Anzi, molte di quelle misure sono opportune e meritorie, ma a nostro parere è sbagliato legare quei provvedimenti e la loro attuabilità ad un’ipotetico allentamento dei vincoli di finanza pubblica. Ci sono ampi margini di riqualificazione della spesa pubblica, che potrebbe essere riequilibrata per funzioni e obiettivi, anche a totale invariato. E ci sono importanti “riforme a costo zero” – la riforma del lavoro e le liberalizzazioni – che valgono più di qualsiasi intervento di spesa pubblica, perché incidono direttamente sul potenziale di competitività e crescita.

Non ci sono invece margini perché lo Stato italiano riprenda a spendere più di quanto incassa, come accaduto nei decenni in cui abbiamo scaricato sulla creazione di nuovo debito pubblico – cioè sulle generazioni future, cioè l’oggi – e sulla svalutazione competitiva le difficoltà dell’economia italiana a innovarsi. Non ci sono margini, non perché lo impone la Commissione Europea o una fantomatica ideologia “neoliberista”, ma perché l’Italia non sarebbe in grado di sostenere un debito pubblico superiore all’attuale 133%: il Paese è ancora un sorvegliato speciale agli occhi degli investitori e degli analisti finanziari, sulla base delle cui scelte noi riusciamo a piazzare sui mercati, a prezzi contenuti, le centinaia di miliardi di debito pubblico che annualmente rinnoviamo. Saremmo una nazione senza memoria, e questa sarebbe una classe politica scellerata, se dimenticassimo che nel novembre del 2011 abbiamo rischiato di non riuscire più a collocare il debito a prezzi ragionevoli: quali conseguenze ci sarebbero state allora per le pensioni o per i salari pubblici degli insegnanti o dei medici?

I critici dell’austerità fiscale, quelli che attribuiscono la responsabilità della crisi all’Europa, alla Germania e ai vincoli sulle politiche di bilancio nazionali, sono sempre più numerosi in Italia. Come ha scritto qualcuno, si va dai “critici moderati”, che si battono per qualche grado in più di discrezionalità fiscale, ai “critici radicali”, disposti a uscire dall’euro pur di riavere indietro la sovranità sul bilancio pubblico nazionale. Sembra diventato uno sport nazionale: ma è la riproposizione dei peggiori vizi italici dei decenni finali della Prima Repubblica, più debito pubblico e svalutazioni della moneta.  

Tutti ricordano che, per comodità di Francia e Germania, più o meno dieci anni fa, la Commissione europea sospese le sanzioni per il mancato rispetto dei parametri di Maastricht. Questo avrebbe dovuto consentire ai due paesi di mantenere per un po’ il deficit sopra al 3% del PIL. Era soprattutto la Germania ad avere bisogno della moratoria, perché attraversava una crisi di bassa crescita. Andò tutto liscio, senza contraccolpi, perché non c’erano turbolenze sui mercati, perché Francia e Germania avevano un debito basso ed erano entrambi credibili sotto il profilo della disciplina fiscale.

Oggi andrebbe ancora tutto liscio per l’Italia? Purtroppo no. Nelle condizioni attuali sui mercati finanziari, con un debito pubblico elevatissimo e a causa della scarsa credibilità sulla disciplina fiscale, l’Italia non potrebbe proporre uno scambio simile. Le condizioni dei mercati finanziari e l’alto debito si spiegano da sé. Il nostro paese ha sempre gestito il proprio bilancio pubblico in modo pro-ciclico. In altri termini, quando l’economia va male facciamo manovre correttive per mantenere la stabilità dei conti. Quando l’economia va bene allarghiamo i cordoni della borsa e redistribuiamo “tesoretti” a destra e a manca con spesa pubblica a pioggia. Un esempio macroscopico è il modo in cui abbiamo dilapidato il “dividendo della moneta unica” prodotto dalla riduzione dei tassi di interesse e del costo del debito registrati dopo il 1996: circa 700 miliardi di euro in 12 anni. Nel giro di qualche anno la minore spesa per interessi è stata quasi integralmente sostituita da maggiore spesa corrente primaria!

Non possiamo permetterci nemmeno il sospetto di allentare l’austerità. Lo pagheremmo con l’aumento del costo del debito pubblico senza avere in contropartita nessun miglioramento della congiuntura economica. Non è vero che l’Europa ci priva della discrezionalità fiscale. Siamo stati noi a dilapidare la nostra credibilità. Ora è il momento di ritrovarla, con un piano dettagliato e coraggioso di riforme, che per fortuna questa maggioranza e il governo che questa sostiene hanno intrapreso di gran lena.”